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giovedì 20 novembre 2014

Le Nuvole di De André



Vanno  e
vengono...
Lascia che sia fiorito, Signore, il suo sentiero quando a Te la sua anima e al mondo la sua pelle dovrà riconsegnare, quando verrà al Tuo cielo là dove in pieno giorno risplendono le stelle
        di Matteo Tassinari
Il problema vero è stato quello di concepire un album come Le nuvole, dove chi critica la società in cui vive ne è più che discretamente coinvolto e in parte responsabile. La contraddizione era in effetti solo apparente e derivava dal fatto di non volerla accettare mendicando dall'inconscio pudibondi istinti di dissociazione e di auto assoluzione.

"Afferrato   il problema,
mi è stato    facile
sdoppiarmi da un punto di vista oggettivo e quindi oggettivamente descrivere la vita dei porci continuando soggettivamente a fare il porco, tanto più che nessuno potrebbe descrivere il porcile meglio del maiale. Tenendo semmai presente soltanto una distinzione di carattere più quantitativo che non qualitativo: vale a dire che io, piccolo suino, avrei descritto i sentimenti e i comportamenti di suini molto più grandi di me", disse alla presentazione della conferenza stampa del cd Le nuvole come riferimento costante e misterioso sul senso della vita, oltre quelle bambagia, cosa c'è, già si chiedeva Aristofane? "Le nuvole sono un teatro permanente, uno schermo su cui proiettare le nostre visioni, ossessioni, premonizioni, profili e cornici tra la terra e il cielo", dichiarò Faber al Rockstar Magazine, ancora con la paura di dire una stronzata da dare in pasto ai critici musicali. "Le Nuvole sono ciò che ci distanzia da quello che ci nascondono, il cielo, la luce".  
Scritto     con
  Mauro Pagani,
una sorta di Brian Eno italiano, con interventi di Massimo Bubola (in Don Raffae'), il disco nasceva dopo due anni passati in Sardegna e le voci all'inizio del disco sono anche un omaggio all'inimitabile dizione profonda, scandita come la pietra, della gente di Sardegna. Per Faber era un momento difficile, tormentato. Nel 1989 era morto l'amico Emilio Fassio, e pochi giorni dopo a Bogotà anche il fratello Mauro, così diverso da Faber, serio, preciso, avvocato tra i più importanti del foro di Genova, sempre impeccabile in tutte le occasioni, diciamo pure, il contrario di Fabrizio.
Il 7 dicembre dello 
stesso   anno 
Fabrizio e Dori Ghezzi si sposarono dopo quindici anni di convivenza, in una cerimonia riservata, e per Fabrizio, iniziò una nuova vita, per dirla con una parola sola, più dolce. Il rapporto tra i due era profondo e stimolante, ammirevole per tutti quelli che avevano il piacere di condividere alcuni momenti con loro. Dori era la consigliera, l'altra faccia, la sponda, l'intimità, consolidata nei giorni del rapimento, giorni e notti passati insieme in una specie di capanno improvvisato con legno e lastre di Eternit, poi soprannominata in un brano Hotel Supramonte in piena Gallura, fra sterpaglie e macigni dispersi in mezzo a monti da non vedere inizio, ne fine. Disse Faber alla conferenza stampa: "Prima i rapitori volevano 2 miliardi di lire, poi sono arrivati ad un patteggiamento fino ad arrivare a 500 milioni". Da questo episodio la creatività, l'immaginario elastico di Fabrizio sul popolo sardo, si fa ampio spazio nei suoi testi e scatena tutti i suoi risvolti e sfaccettature, formando un vero dipinto dell'Isola, la profondità di quel silenzio affascinante. 
L sinfonia
 Mediterranea
In quello     stesso anno Creuza de mà, venne definito il miglior disco italiano del decennio. Faber e Pagani venivano da un'esperienza decisiva. La ricerca e l'approdo al disco-capolavoro avevano radicalmente trasformato la storia musicale di De André, l'approccio da cantautore che bene o male era stato dominante. Non che De André non avesse sempre applicato la massima attenzione alla scrittura musicale, tutt'altro, ma Creuza era un enorme salto in avanti, era una sinfonia del Mediterraneo, un disco dove per la prima volta non era così determinante capire il testo, che infatti molti non capivano, visto che il dialetto genovese è una lingua a sé. Ma importava poco.
Creuza de mà scalinata che va al mare
Il disco    suggeriva
una inedita visione o revisione addirittura della musica italiana, come fosse bagnata dal mare, mossa e maestosa come una barca a vela, ricca di strade, rotte da riscoprire, frutto di un'etnia che come un doppiofondo viveva nei ritagli del paesaggio postindustriale italiano. Un traghetto che collegava porti lontani, immaginati come perle salgariane della fantasia esotica. Per una volta De André era stato Ulisse, quello dantesco che va oltre le Colonne d'Ercole, nel senso del viaggio verso una meta non prevedibile, corsara, colma di sorprese tiranne e clementi, e quello omerico che gira l'universo per poi tornare a casa, forse più conciliante, ma diverso da appena 30 anni fa quella stessa visione. Difficile ipotizzare un seguito a un disco che, come all'unanimità si ritiene, ha segnato in modo indelebile la musica italiana. De André non rinunciò a quanto aveva acquisito, ma ora c'era di nuovo bisogno di parole, e lui, con la sua proverbiale lentezza, le aveva le parole e le canzonava come nessun altro o altra. Era il migliore riconosciuto dai cantautori stessi. La parola ultimativa era sempre la sua.
Per questo   Le nuvole è    meno
omogeneo, organico, indifferenziato di Creuza, va da sé, ma proprio in questa polifonia di toni è il suo fascino.  Si mettono lì, tra noi e il cielo, come stormi d'uccelli neri che volano compatti e senza paure. De André, autocritico, rimpiangeva la mancanza di unità dell'album, doveva essere un'intera opera, un concept, poi il filo si disperse in mille rivoli, creando volti dai molteplici volti.
Così, Mauro Pagani, che ha curato gli arrangiamenti e addetto alla strumentistica varia tanti sono gli strumenti musicali che adopera in quel capolavoro che è 800, il tratto di satira più bello e creativo di questi ultimi anni, pur nella tragicità degli argomenti: "E' un miscuglio dei nuovi traffici d'organi, prostituzione slava, droga, ipocrisia, rom, extracomunitari che si prendono sempre la colpa, intellettuali che parlano solo per il loro cantare falsamente colto, un fare il verso al canto lirico, suggeritomi dalla valenza enfatica di un personaggio che più che un uomo è un aspirapolvere: aspira e succhia sentimenti, affetti, organi vitali ed oggetti di fronte ai quali dimostra un univoco atteggiamento mentale: la possibilità di venderli e di comprarli. La voce semi-impostata mi è sembrata idonea a caratterizzare l'immaginario falso-romantico di un mostro incolto e arricchito".
Quante     belle figlie
Il primo brano de Le nuvole la parola è ironicamente aulica, la struttura ricorda l'opera buffa o la versione moderna de La gatta Cenerentola di Roberto De Simone nel 1976. In particolare il verso “quante belle figlie da sposar” ricorda da vicino il canto delle sorellastre di Cenerentola.

 *Cantami      di
questo      tempo*

 La caduta morale
C’è tutta  l’Italia rampante del craxismo, quella che nella modernizzazione dettata dai tempi e i modi della crescente globalizzazione sta perdendo identità e senso della direzione. C’è l’orrore contemporaneo del commercio di organi, la caduta amorale nella turpitudine dell’opulenza, un frammento elegiaco del padre che ha perso il figlio suicida, ma è accecato dalla sua fraintesa condizione sociale “per ferirmi, pugnalarmi nell’orgoglio, a me che ti trattavo come un figlio”, una feroce danza macabra del gruppo sociale imbellettato che culmina in un grottesco canto jodel. La bella descrizione di una famigliola alto borghese, la voce narrante è il babbo di questa famiglia pseudo tardo ottocentesca all'antica e fuori moda, quasi fuori dal tempo. Il progresso e il consumismo/capitalismo corrono veloci e impetuosi come due tigri affamate in mezzo ad un branco di gazzelle.
La verdura di papà
Poi affonda nei  vizi dilaganti del paesaggio sociale, come la corruzione politica, culturale ed economica. Doveroso ricordare che 800 è in ricordo all'amico poeta Ferdinando Carola, oppure versi tipo "la verdura di papà" è la maniera in cui Carola chiamava i figli, come anche "cantami di questo tempo/l'astio e il malcontento/di chi è sottovento/e non vuol sentir l'odore di questo motor,/che ci porta avanti/quasi tutti quanti/maschi femmine e cantanti,/su un tappeto di contanti/nel cielo blu", sempre per la propensione del poeta amico scomparso nel non divenire volutamente visibile e non entrare quindi nel meccanismo dei diritti d'autore e di prostituzione poetica.



'800,
Collasso sociale 
indolore
Spiega De André, "che la lucidità ti permette d'intravedere l'avvicinarsi di un collasso della nostra società, di questa società di cui fai comunque parte anche se non vuoi, le maggioranze inglobano a priori del tuo pensiero". L'aspetto satirico era ribadito sulla copertina del live del 1991, con un profluvio di maschere. Pulcinella? Certo, c'è l'irriverenza delle maschere italiane della commedia dell'arte, ma un più antico senso della rappresentazione per metafora dato dal riferimento ad Aristofane. Certo, le nuvole per Aristofane sono occasione di un racconto acuto e persuasivo sui temi della società, la giustizia, il conflitto tra generazioni, il giusto e l'ingiusto, vita, filosofia, Dio, la campagna, la città, vita di risparmio e lusso sfrenato, il vecchio che si dimentica del nuovo come il fumo passa ogni fessura. Le nuvole sono come il fumo, divinità antiche, totem semoventi e mutevoli passaggi evanescenti, attimi di vita, periodici, storie, tutto e niente, libri e ridicoli tentativi di capirli.

Lirismo d'Ottocento 
Ottocento è un brano decisamente antiquatofuori epocainattualepassato, un'opera buffa che miscela numerosi ispirazioni musicali, il pezzo finisce con un brano cantato in jodeltirolese. Anche l'interpretazione vocale di De André è piuttosto anomala. Impostandola come si faceva nelle opere buffe con frack e papillon, al punto che il cantautore gioca a darsi aria di lirismo, coerente con l'andamento pseudo-operistico predominante nel brano. Ecco cosa disse De André alla presentazione del disco a Milano le motivazioni di questa scelta:
Cantare falsamente colto, un fare il verso al canto lirico, suggeritomi dalla valenza enfatica di un personaggio che più che un uomo è un aspirapolvere: aspira e succhia sentimenti, affetti, organi vitali ed oggetti di fronte ai quali dimostra un univoco atteggiamento mentale: la possibilità di venderli e di comprarli. La voce semi-impostata mi è sembrata idonea a caratterizzare l'immaginario falso-romantico di un mostro incolto, arricchito.
A De André è successo
di   essere divorato da una passione inarrestabile, di percepire come nessun'altro il potere della parola, la magia di lavorarla, levigarla laddove ci fosse il bisogno, svezzarla fino al punto giusto, in questo nessuno gli era sopra, fatto riconosciuto dai suoi stesi colleghi e amici, nonostante le tante rivalità e freddezze gratuite o vanitose, finché non emergeva "la parola", quella giusta, quella che aveva maggior potenza e significato, quella parola, non un'altra,  fusa ad una nota che ne svelasse le risonanze, che ne amplificasse la vibrazione lirica e la completezza. Si pensa soprattutto al poeta, ma ci si dimentica che De André era la sua voce, una voce nitida che chiunque di noi ha in questo in testa, ferma, profonda, scolpita, diamantina come un bassorilievo che nei dischi e nei concerti riempiva l'aria con un'autorità che pochi hanno dimostrato, anzi, se paragonati a lui, direi proprio nessuno.
Le loro paranoie
La sua   storia è quella di un artista a tutto tondo (per dire che lo era anche nella vita) che aveva capito un grande segreto a cui i suoi colleghi non c'erano arrivati: la trasformazione della canzone o canzonetta, capire che con la musica si poteva far molto di più che passare 4 o 5 minuti ad ascoltare "acqua azzurra, acqua chiara" o "tutto il resto è paranoia", da eccesso di uso di cocaina. Ormai gli aveva scavato una parte della cartilagine destra del naso, come mancasse la parte ultima.






Don Raffae' è una tarantella brillante dalla prima nota all'ultima. Prodigiosa per l'idea, dotata di un'illuminate bizzarria, un modo di trattare i fenomeni con una sensibilità verso l'ipocrisia del giudizio, che è un modo per affermasi. Stravagante, inatteso, lucente fra una un caffè e un Martini o una spremuta. Un affresco di una vita (?) che si svolge in carcere, fotografata con una precisione stilistica ed obiettiva, alata e ammirevole per la realtà dei contenuti del brano Don Rafaè. Un momento dei tanti, chiusi e ambientati tutti, carcerati e guardie a Poggioreale di Napoli. C'è un brigadiero e un capoclan, l'incontro fra due realtà apparentemente diverse, ma così non è. Il contropotere della camorra e l'assenza dello Stato sono temi antichi ormai. La vergogna ci sovrasta. Il brano era in qualche modo ispirato a Raffaele Cutolo, il quale spedì a De André tre lettere e un libro di poesie.
Tra le sue varie insoddisfazioni
c'era soprattutto La domenica delle salme. Era contento del testo (“Era tutto quello che avevo dentro e che sentivo di dover dire, un brano che mi soddisfa molto, fatto che capita raramente”) e ci mancherebbe che non lo fosse stato, ma lamentava una eccessiva semplificazione musicale. Qualcosa comunque che non andava, c'era sempre. E' il virus dei perfezionisti, gli insicuri, dei tenaci, che temono lo sbaglio, quindi anche orgogliosi fino al midollo, questi sono gli artisti fino in fondo. Penso a quanti brani di Fabrizio ci hanno aperto la mente, quante novità ha portato quando si era fermi al ciarpame e vecchiume di Claudio Villa o più beat alla Domenico Modugno, dove un briciolo di rivolta già s'intravvedeva. Essere artista non l'ha mai saputo nessuno chi sia.
Charles Bukowski
E' vero invece che ci sono diversi artisti, ognuno è un folle alla sua maniera. Come fai paragonare Van Gogh che si tagliò un'orecchio e il godurioso e ridondante Oscar Wilde? O come metti sullo stesso bilancino il ruvido Bukowski con il metafisico Kafka? Non c'è l'artista, ci sono gli artisti. Il titolo dell’album è squisitamente politico, ed è un richiamo diretto alla nota e ancora omonima commedia di Aristofane. Nell’opera del commediografo greco “le Nuvole” rappresentano i sofisti, cattivi consiglieri e contestatori (tra i quali viene annoverato, suo malgrado, il povero Socrate, in qualità di esponente principale della categoria) i quali, secondo De André, indicavano alle nuove generazioni un nuovo tipo di atteggiamento mentale e comportamentale sicuramente innovativo e provocatorio nei confronti del governo conservatore dell'Atene di quei tempi.


L'affetto per la      parola
In realtà, se La domenica delle salme risalta come il testo più forte, quasi agghiacciante, dell'intera opera di De André, lo si deve anche alla sua scarna e spigolosa semplicità: un arpeggio di chitarra su cui il cantautore riversa una valanga di immagini violente, cupe, sferzanti. L'assenza di orpelli ne esalta la cattiveria, non ci si può distrarre in alcun modo.
Anche l'erba mossa dal vento è un pretesto espressivo.
Qui la notte stellata capolavoro assoluto


Come le Nuvole di Faber anche nella "Notte stellata", tutto diventa un vortice di follia. La luce rappresenta quello che sente le mente. C'è un accumulo di colori che ti confonde. De André Van Gogh, i grandi uomini sono i più soli.

Cipressi    e nuvole

scosse    dal vento
Le parole sono li, pesanti come macigni. Mauro Pagani sottolinea che la lentezza con cui procedeva il lavoro era dovuta alla precisione maniacale di De André e soprattutto al suo rispetto della parola. Grazie al suo seminare sinapsi e metafore ha dimostrato semplicemente come la poesia dica troppo in poco tempo, mentre la prosa dice poco e impiega troppo ad arrivare e colpire al plesso solare il brivido che Van Gogh aveva quando dipingeva. Si narra che molti dei suoi quadri in movimento come il dipinto dove rappresenta la sua stanza in campagna, dove le sedie ed i tavoli poggiano per terra ma vibrano, quello è il "morbo di Parkinson" del pittore olandese. L'auto mutilazione dell'orecchio sinistro, spesso citata come la prova di una conclamata follia, potrebbe nascondere in realtà la vendetta di un amico. Secondo alcuni storici sarebbe stato il pittore e per alcuni tempi coinquilino di Vincent Paul Gauguin - esperto schermitore - a mozzare parte del lobo (e non l'orecchio intero) durante una delle frequenti liti fra i due.
Quanto giusto pensate che sia

Le virtù profetiche
di Faber
Navvertiva tutta la responsabilità, sapeva che dietro ogni parola ci poteva essere un senso, e questa tensione si avverte costantemente nella costruzione dei versi. Se il suo verseggiare è forte, carismatico, contagioso lo si deve al fatto che si percepisce perfettamente come ogni parola fosse meditata, pesata, metabolizzata a fondo. E per questo La domenica delle salme è una canzone che fa male, quasi fisicamente, e ha virtù perfino profetiche. De André sembra un predicatore amareggiato, a cui hanno tolto il beneficio della speranza. L'Italia pare sprofondare in una malsana palude di corruzione. Il potere qui è sinistro, malevolo, nudo, non ha maschere grottesche con cui coprire le sue vergogne.
Troie    di regime
Vivandieri di cose vietate, portaborse, galoppini, lacchè, fiduciari, adulatori, scagnozzi, e lustrascapre, troie di regime, addetti alla nostalgia che accompagnano tra i flauti il cadavere dell'Utopia, Milano che galleggia in una bottiglia di orzata, viandanti che si rifugiano nelle catacombe. Dopo Anime salve, De André chiamò Mauro Pagani per un nuovo progetto, che doveva essere un Requiem dedicato al secolo che finiva e allo sfacelo sotto cui viviamo. Una parodia della nostra vita quotidiana, ignobile e ripugnante. Non fece in tempo a farci anche questo regalo. La malattia aveva già ideato il titolo per il Requiem di Faber: Le nuvole.

martedì 4 novembre 2014

La Sardegna nel cuore di De André

Tenuta dell'Agnata, Tempio Pausania
di Fabrizio De André 


De Andrè:
Macondo, luogo ideale per Gabriel Garzia Marquez




Faber

il contadino

di Matteo Tassinari

Ho sempre  pensato che l’uomo, più  della donna, viva un bisogno più intenso: quello di avere nella propria memoria universale, un punto fermo dove ritirarsi all'uso, come fa il lupo nei momenti che vuole isolarsi dal gruppo per starsene da solo nella propria tana. Soprattutto quando questi intuisce che sta per vivere l’ultima porzione della sua vita o vede allorizzonte una buriana tsunamica e di sovente, questi luoghi, sono i posti della propria infanzia, ma anche no. Pavana per Guccini, Macondo per Marquez, Samarcanda per Vecchioni, Porto Empedocle per Camilleri e tanti altri.
Roberto Vecchioni, Luci a san Siro
La definisco,
in quanto non è che siauna patologia, ma una mia virata mentale che vale il momento che serve per dirla, poi basta: “nostalgia dell’innocenza”. Diceva di essere più sardo di Mario Segni e Francesco Cossiga: “che in Sardegna ci tornano due volte all’anno per 15 giorni”. Fabrizio De André, in Sardegna, precisamente nella tenuta dell’Agnata, in mezzo alle campagne di Tempio Pausania, ci viveva 8 mesi su 12 da circa 25 anni  assieme a Dori Ghezzi, con la quale ha trascorso tre di questi mesi proprio nel cuore (malato) della Sardegna, ha detta degli stessi sardi: LAnonima Sarda. Lui, quel periodo, lo chiamò “Hotel Supramonte”, una catena montuosa dell'entroterra sardo, nascondiglio dei più famosi latitanti dell’isola, dove Faber vide la neve col freddo, ma la sua maglia era per Dori, e non è romanticismo balordo.
Martino Moreddu (nella foto all'epoca del processo per il rapimento De Andrè-Ghezzi), presunto compagno di scorribande del cantante e poi noto per essere stato il "vivandiere" del sequestro. Poi è stato assolto da ogni accusa perché il fatto non sussiste



L'odore del sangue

Intervistato il giorno dopo della liberazione di Faber e Dori da un gruppo di cronisti, De André tracciò un racconto pacato dellesperienza: “ci consentivano, a volte, di rimanere a lungo con le mani slegate e senza i cappucci che ci avevano messo in testa per non vedere alcun segno che poteva diventare di riferimento”. Ebbe parole di pietà per i suoi carcerieri:“Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai e se lo faranno, è per prendersi un colpo di pistola in testa. Dopo questa tragica esperienza vissuta con Dori, posso dire di conoscere meglio il popolo sardo”.
Questi erano

i suoi pensieri,
le sue conclusioni, come si trattasse di un fatto come un altro. Dopo il sequestro, in molti gli hanno chiesto perché decise di rimanere in Sardegna e se aveva paura del reiterarsi del rapimento: No, ormai non ci rapiscono più. Nessuno me l'ha detto a voce, ma gli occhi hanno parlato chiaro. Sono protetto ora! E guai a chi mi tocca!”, dice ridendo. Potrei urlare: GRANDE FABER! Il suo rapporto con la vita, natura, persone, codici di cultura e loro rispetto, una persona che intuiva lo stato d'animo, e non voglio fare di Faber una sorta di veggente, per carità e per essere precisi evitando fraintendimenti anche pelosi, non veri in breve, è che davvero, come nel caso di Princesa, il travestito a cui s'affezionò come amico, fino a fornirgli un'ingente parte della somma per l'operazione, il suo desiderio della vita, ora morta di aids da circa 10 anni.
Spesso si vedevano e quando Princesa arrivava, Fabrizio De André, diceva ad alta voce:"Ed ecco arrivata la nostra principessa", da qui il titolo della stupenda canzone sul travestismo scritta con Ivano Fossati cosa che faceva con altre persone, ma non mi pare il caso di fare l'elenco delle buone azioni di De Andrè, lui per primo non lo accetterebbe pugnalandomi per come l'ho conosciuto. Si nutriva dell'intimità che creava il rapporto fra lui la persona, chiunque fosse e da qualsiasi parte del mondo arrivasse. Diceva che con la vita aveva un tipo d'approccio spiritualistico, cosa che in città non riusciva neanche ad immaginare, troppo distratto da tutto: “L’ambiente influisce sulla crescita di ogni persona, e a volte viene dato per scontato ciò che è sbagliato, come fare una stalla col tetto d'Eternit, ne ho viste. E’ da pazzi lasciare le pecore sotto l'Eternit nel luglio nuorese".
Oltre il ricordo

Senza      Dori



non ce l'avrei        fatta
Il suo   essere quasi sardo, per così dire, non era il risultato del trascorrere del tempo di un’abitudine, né un effetto del trauma relativo al sequestro, ma semmai un percorso nel contempo lineare e tortuoso. A pagare il riscatto, 600 milioni di lire nel 1979, fu il padre, dirigente industriale, già braccio destro di Attilio Monti (quello che poi diventò il Gruppo Montedison del ravennate e dal sangue davvero romagnolo Raul Gardini). La presenza di Dori è stata fondamentale, - dice Fabrizio - affinché non succedessero fatti che avrebbero finalizzato molte cose, nel senso che avrei certamente cercato di scappare fossi stato solo. E' stata la mia salvezza e io la sua, per sua ammissione.

Hotel


Supramonte


"E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome, ora il tempo è un signore distratto è un bambino che dorme, ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano, cosa importa se sono caduto se sono lontano. Perché domani sarà un giorno lungo e senza parole, perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole, ma dove dov'è il tuo cuore, ma dove è finito il tuo cuore".

Faber, il giorno del processo
Ho paura di    Brassens
Durante il processo, fu rilevato il paradosso del cantautore anarchico rapito dai banditi verso cui simpatizzava e salvato dal capitale famigliare. Furono in pochi a sapere, allora, che De André Senior, come Fabrizio avrebbe raccontato all’amica Fernanda Pivano, era un mazziniano convinto, quindi non lontano da idee libertarie. Quando tornava a casa dalla Francia per i suoi impegni di lavoro come A.D. dell’Eridania, non dimenticava mai di portare a Fabrizio un disco di George Brassens, a cui piaceva non solo come cantante, ma era per lui un riferimento culturale, che non volle mai incontrare per paura di rimanerne deluso, questo è quello che diceva, ma io non ci credo. Credo più alla sua universale timidezza che lo immobilizzava, pur riuscendo sempre a trovare il modo brillante per uscire da situazioni imbarazzanti.














Un    piede in terra

l’altro in      mare

Qualcosa di  simile è successo con la Sardegna. Tra De André e l’isola esisteva un sostrato comune, una comune concezione del mondo, come se l’antistatalismo “naturale” di De André (caratterialmente, oltre che ideologicamente anarchico) e quello storico della Barbagia si fossero ad un certo punto incontrati e avessero deciso di stringere un patto di ferro. Un’amicizia poi cementata dall’amore per le sughere e per il vino, per il granito, il pane, il mare e le vecchie leggende che ad ogni racconto s’infarcivano di ulteriori aneddoti. Un mondo che fai fatica a scoprire in corso Buenos Aires a Milano. Un idem sentire che neppure il sequestro cominciato il 27 agosto e finito il 22 dicembre 1979, riuscì a spezzare. Anzi, per certi versi, la rese ancora più radicato e forte il culto della Sardegna in Fabrizio, definendo quella sarda un’etnìa rivolta al futuro e rispettosa del loro passato. “Gente - diceva – che ama i bambini e rispetta i vecchi”. 
La Barbagia è una vasta regione montuosa della Sardegna centrale
che si estende sui fianchi del massiccio Gennargentu.
Li per circa 3 mesi, all'aperto, hanno vissuto Fabrizio e Dori
Vado a correggere

la fortuna





Murales di De André Orgosolo Associazione Cuncordu
E questo potrebbe far sorgere il sospetto d’un approccio romantico, l’approccio che può permettersi chi ha fama e soldi ed una splendida famiglia. Una specie di recupero barbaricino del mito del buon selvaggio. Il fatto è che De André in Sardegna si è sporcato le mani, rischiando forse troppo,  ha combattuto, durante i primi anni della tenuta Agnata con le normative agrarie ed i contributi Cee di cui poteva beneficiare in quanto coltivatore diretto.

Colui che per
isottoscritto è
stato il maggiore poeta italiano del secolo scorso, il più grande distillatore di emozioni in versi, spesso si svegliava presto al mattino per dare mangimi e latte alle sue bestie. Questa immagine incantevole, oltre che seducente fino alla meraviglia, mi offre il senso della grande bellezza nel silenzio, da solo con i suoi animali da allevare e di cui era innamorato. Ognuno è fatto a modo suo, no? Ha letto decine di libri sulle tecniche di coltivazione e di allevamento, ha tentato di far quadrare i conti della sua azienda agricola, l’ha cresciuta, sviluppata e ingrandita. Se nel 1978 decise di cantare in pubblico alla Bussola Viareggio per la prima volta, fu proprio per i debiti accumulati a causa dell’azienda Agnata. Avrebbe potuto chiedere aiuto alla famiglia, ma non volle neanche sentire parlare di questa opzione troppo comoda: “Hanno già fatto troppo col sequestro e adesso gli vado a chiedere altri soldi perché ho l’azienda i

Ad ogni concerto


una bottiglia di whisky per cercare di sedare quel mostruoso batticuore e paura di ritrovarsi all’improvviso davanti a migliaia di persone che non aspettavano altro che ascoltare il cantautore più conosciuto, ma anche il più sconosciuto, vista la sua ritrosia, timidezza, riserbo, l’estrema paura di sbagliare, qualche accordo non acciuffato. Disse: “Se non era per l’Agnata ed i debiti, non so se mi sarei sbloccato, perché per me era un blocco cantare davanti a migliaia di volti oscurati e nessuno conosciuto, non era usuale per me. Sarebbe come prendere Toro Seduto e sbatterlo davanti ad un computer, che ci fa?”. Ma l’Agnata aveva bisogno di mangime e le bestie non potevano aspettare certo le date dei tour e le vacche volevano essere munte. Chiese un credito ad una banca, nell’arco di 5 anni lo liquidò e i trattori che zollavano la terra divennero cinque.
Fabrizio, Dori e la figlia Luvi nella stalla della tenuta

I Marinai di foresta
Dopo  il sequestro, De Andrè coniò la fuorviante “Hotel Supramonte”, mentre un poeta sardo, nuorese per giunta, Sebastiano Satta, definì i banditi “belli, feroci e prodi”. De André li definì, più sobriamente: “marinaio di foresta”, i latitanti della Barbagia che negli anni '70 erano quasi una decina. Poi collaborò alle indagini senza incertezze e si costituì parte civile, però solo contro i capi, i mandanti, quelli che non si sono sporcate le scarpe di fango, ma da Milano, ogni tanto facevano un salto all’Hotel Supramonte per vedere come andava il sequestro e non contro i gregari, che in pratica facevano la vita di Faber e Dori, freddo, sole, acqua, neve e disagi enormi come imboccare i due sequestrati che hanno tenuto quasi sempre un cappuccio in testa.
Fabrizio "tra" le sue mura
Il      Giorno
del    Giudizio
Ma c’è un altro Satta, un altro sardo che ha qualcosa in comune con Fabrizio De André: Salvatore Satta, insigne giurista, poi scrittore. Se De André vedeva nei racconti dei vecchi di Tempio qualcosa che gli faceva pensare a Gabriel Garcia Marquez, Satta nel suo “Giorno del giudizio”, ha descritto un sistema di valori e di rapporti che sembrano parlare col mondo di De André. “Il pastore appartiene alla dinamica della vita, il contadino alla statica. Nessuna legge può impedire al pastore di considerare la sua proprietà in tutto quello che l’occhio può abbracciare”. Ha detto De André parlando dei suoi sequestratori: “Era come se dicessero: a me non manca nulla ma perché mi metti sotto il naso la tua villa con piscina, il SUV, tutti con i Rolex ai polsi, valigie di Louis Vuitton e di fianco sempre pronto per partire con l’aereo privato?

I codici imposti

“Mi pare che sempre di più sarebbe necessario che invece di dire che Fabrizio è il Bob Dylan italiano, si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio americano”. (Fernanda Pivano, consegnando il Premio Lunezia 1997 a Smisurata preghiera). De André, giunto in Sardegna da contadino, è diventato pastore, sublimazione stupenda, soprattutto sul piano dell’immaginazione collettiva e la figura costantemente imprevedibile di Faber, come l'amico Gaber. Ha considerato “suo”quell’intero mondo, dove mari e odore salmastro, lo difendevano dal caos e dalle maggioranze silenziose ma assordanti delle grandi città del Continente.
Fabrizio al lavoro
"Eravamo fratelli"
Imparò alla perfezione il sardo, come fosse naturale saperlo, in neanche un anno e lo parlava da sardo, racconta il contadino che gli ha insegnato tutto dei lavori di un’azienda agricola. Oggi, questo anziano signore, quando parla di Faber, piange, dicendo con la voce interrotta dal pianto: “Eravamo due fratelli e respiravamo il rispetto che ognuno aveva per l’altro”. Arrivò a condividere anche le rabbie, i disagi, le illusioni fino ad aderire ad un movimento indipendista sardo, fino ad aprire la sua casa a tutti i visitatori facendone un agriturismo speciale, dove non ti sentivi ospite ma amico. E io sono ancora qui a mangiarmi le punta delle dita per non aver accolto nel 1998, al Teatro Turismo di Riccione, il suo invito ad andarlo a trovare a casa sua per tutto il mese d’agosto. Purtroppo avevo già prenotato un altro viaggio, pensando che avrei potuto esaudire questa grande emozione, quella di vivere a 360 gradi per un mese la vita del cantautore e poeta migliore del secolo scorso.